"Degli anni Settanta si ricorda solo la violenza. Perché non ci fu altro". Così scrive un povero uomo sul giornale di mio padre, rilanciando il luogo comune del decennio di piombo, contrapponendolo a quello successivo, gli anni '80, che invece «liberarono la nazione dall'epoca degli agguati». E poi giù una serie di banalità e di false storie, condite dal «deserto dell'immaginazione e della creatività» che avremmo conosciuto nei '70.Ognuno ha la sua memoria, quella del ehm ehm “giornalista” in questione accompagna le tante e prevalenti che ricostruiscono la storia a uso e consumo del presente. Perché se la nostra vita deve essere ridotta a parentesi elettorale tra lunghi silenzi rotti solo da brusii televisivi, perché se il cittadino si traduce in consumatore, allora quegli anni diventano fastidiosi ben al di là delle loro tragedie di sangue, che rimangono - appunto - un prodotto da far consumare ai contemporanei.Tanto peggio, allora, per lo statuto dei lavoratori e i consigli di fabbrica, per la riforma sanitaria e le leggi su divorzio e aborto, per le «utopie» partecipative, per le piazze in cui storie e classi diverse si incontravano e mescolavano, per il femminismo e l'ambientalismo che in quegli anni conoscevano una nuova vita. Via tutto, dalle conquiste civili e sociali alla produzione culturale: tutto cancellato dal sangue e dalla P38. Ma non è tanto una rimozione o l'ultima puntata del revisionismo cui ci hanno abituato. E' una «ricostruzione» che parla al presente, è l'asserzione di un modello politico e culturale che non casualmente enfatizza gli anni Ottanta: il silenzio che sostituisce la parola. Se degli anni Settanta non vogliono ricordare altro che la violenza è perché «l'altro» è stato cancellato, soppresso, ucciso. Dal sangue e dalle parole. Quelle che oggi ci chiedono di starcene chiusi in casa, per non disturbare chi ci racconta la storia e ci gestisce la vita.